L’associazione in partecipazione, disciplinata dagli artt. 2549-2554 del codice civile, è un contratto con il quale un imprenditore (detto associante) attribuisce ad un altro soggetto (detto associato) la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto.
Fino a giugno 2015, l’apporto fornito dall’associato poteva consistere (anche) nello svolgimento di una prestazione lavorativa.
L’art. 53 del decreto legislativo n. 81/2015, attuativo della legge delega n. 183/2014 (c.d. Jobs Act), entrato in vigore il 25 giugno 2015, ha invece statuito l’abrogazione del contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro. In particolare, la norma in parola ha riformulato il testo del secondo comma dell’art. 2549 del codice civile, stabilendo che, nel caso in cui l’associato sia una persona fisica, l’apporto “non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro” .
Di recente la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla distinzione, non sempre agevole, tra rapporti di lavoro subordinato e associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa.
Con l’ordinanza n. 3762 del 07.02.2022, la Cassazione afferma che l’associato in partecipazione deve essere considerato un lavoratore subordinato se, da un lato, non ha rischio di impresa e, dall’altro, non ha alcun potere decisionale in ordine all’attività svolta.
Nel caso in esame, l'I.N.P.S. contestava alla società l'omissione contributiva con riferimento ai rapporti di lavoro di tre dipendenti – con mansioni di addette alle vendite in negozi gestiti in franchising dalla società – formalmente qualificati in contratti di associazione in partecipazione, preceduti da un periodo di espletamento, di fatto, delle medesime mansioni e in seguito sostituiti da contratti di apprendistato.
La Corte d’Appello rigettava la predetta domanda, sul presupposto che questi ultimi contratti erano stati stipulati in epoca immediatamente successiva ad un precedente periodo di espletamento delle identiche prestazioni formalizzate come rapporto di lavoro subordinato a termine con qualifica di apprendiste.
Inoltre nelle dichiarazioni rese agli ispettori verbalizzanti era emerso una paga oraria fissa e la turnazione di lavoro. Inoltre la necessità di autorizzazione per le assenze, le caratteristiche delle prestazioni lavorative svolte – ripetitive ed elementari al punto da non richiedere controlli puntuali – e le quietanze di pagamento concernenti l'avvenuta percezione di compensi, confermavano l'apprezzamento del compendio istruttorio acquisito alla stregua degli indici della subordinazione.
La Cassazione - nel confermare la statuizione della Corte d’Appello - rileva, preliminarmente, che la distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato risiede nelle modalità di attuazione del concreto rapporto.
Per la sentenza, infatti, il primo tipo di contratto implica l'obbligo del rendiconto periodico dell'associante e l'esistenza per l'associato di un rischio di impresa, mentre il secondo è caratterizzato da un effettivo vincolo di subordinazione - più ampio del generico potere dell'associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato - con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare della persona o dell'organo che assume le scelte di fondo dell'organizzazione dell'azienda.
Secondo i Giudici di legittimità, dunque, laddove i lavoratori espletino l’attività senza alcun rischio d'impresa e non siano dotati di poteri decisionali rispetto all'andamento dell'azienda, il relativo rapporto non può che essere ricondotto nell’alveo della subordinazione.
Su tali presupposti, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla società, confermando la debenza della contribuzione richiesta.
Ulteriori precisazioni sulla distinzione tra lavoro subordinato ed associazione in partecipazione si rinvengono nella successiva ordinanza della Cassazione n. 4537/22, che precisa che non scatta l'associazione in partecipazione se il lavoratore ha lo stipendio fisso mensile senza partecipazione agli utili: l'esclusione dal rischio d'impresa e la mancata autonomia gestionale dell'associato escludono la configurabilità del contratto.
Nella fattispecie, la Corte d'appello aveva respinto l’opposizione proposta da una s.p.a. contro la cartella esattoriale con cui le era stato ingiunto di pagare all’Inps somme per contributi omessi in danno di tre lavoratrici associate in partecipazione e di una collaboratrice a progetto, ritenute tutte lavoratrici subordinate.
La società è ricorsa in sede di legittimità lamentando il fatto che il giudice aveva ritenuto che, ai fini della configurabilità di un valido contratto di associazione in partecipazione, fossero necessarie sia la partecipazione dell’associato alle perdite d’impresa che la sua ingerenza nella gestione della stessa.
Per i giudici di Piazza Cavour il ricorso è infondato. Al riguardo, hanno osservato che le lavoratrici associate in partecipazione avevano percepito “una somma fissa mensile” senza alcun conguaglio rispetto agli utili. Inoltre, gli unici due rendiconti depositati in atti, che non risultavano né sottoscritti né approvati dalle lavoratrici, apparivano elaborati unicamente al fine di accreditare la genuinità dell’associazione in partecipazione.
Per i giudici di legittimità la Corte territoriale ha giustamente ritenuto che mancasse un'effettiva partecipazione al rischio di impresa, dunque, uno dei requisiti che devono ricorrere per la configurabilità della fattispecie negoziale di cui al contratto formalmente stipulato tra le parti.
Carla Martino
Avvocato Giuslavorista ITALPaghe.com